Lucia Coppola - attività politica e istituzionale | ||||||||
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Trento, 13 genaio 2016 Si è celebrata lo scorso mese di dicembre la «Giornata internazionale della montagna» e questo evento, che non dovrebbe essere solo di prammatica ma sollecitare opportune riflessioni e approfondimenti, mi stimola alcune considerazioni sulla montagna come spazio non solo attraversato, come spesso viene considerato, ma vissuto. Parlare dell’antropizzazione della montagna significa infatti indagare i modi e le forme con le quali i gruppi umani si sono insediati nel corso dei millenni. E parlare di quali sono attualmente le forme e i modi di tale insediamento. Le montagne sono uno spazio geografico, narrativo, letterario e anche storico. Basti pensare al ruolo che hanno avuto nella Grande guerra e anche in quella partigiana. Ma sono anche e soprattutto i luoghi del vissuto delle persone che vi abitano, perciò lo svuotamento dei paesi, la riduzione dell’attaccamento al proprio luogo di appartenenza quando gran parte della vita è altrove a causa del pendolarismo, quando i paesi, proprio come i quartieri delle città, diventano «dormitori» dai quali si parte all’alba e si torna a sera. Vi è dunque, ormai consolidato nel tempo, una sorta di «meticciato» della montagna che mette insieme le storie di chi la vive a pieno, in tutto il corso della sua esistenza e ogni giorno dell’anno, di chi va e viene per ragioni di studio e lavoro e di chi vi si trasferisce (turisti, villeggianti, forestieri) in qualche periodo dell’anno. Credo sia fondamentale capire come simili differenti storie entrano in relazione. Vi è uno scambio paritario e costruttivo? Il turista è solo un predatore di luoghi, paesaggi, risorse o può essere visto anche come portatore di nuovi punti di vista, di altre storie, compatibili, importanti, necessarie? Allo stesso tempo è evidente che per chi ci abita le montagne sono un ambiente dinamico, amato, complesso e qualche volta difficile, non solo da ammirare e da godere ma da vivere. Perciò l’obiettivo non è più solo la garanzia della propria sopravvivenza ma forse ancor più la conservazione, che diventa garanzia di sopravvivenza dell’ambiente. Rivolgersi alla storia può aiutare a recuperare utili elementi di riflessione per affrontare con maggior consapevolezza le scelte che quotidianamente vengono poste da un cambiamento costante e da un’accelerazione per certi versi incontrollata. Il capitale umano, la ricchezza, le caratteristiche della cosiddetta «gente di montagna» sono ancora individuabili? Penso che la formazione delle nuove generazioni, con un occhio al passato ma proiettati nel futuro, sia sicuramente l’investimento di maggior rilievo per sostenere le nuove sfide lavorative, economiche, ambientali. Si tratta a mio avviso di accrescere e sostenere quello che prima ho chiamato «il capitale umano» nella propria residenzialità, nel far vivere o rivivere i paesi interrompendo il processo di svuotamento e delocalizzazione che li snatura e li depriva. I processi di integrazione tra luoghi, territori, attività, e in particolare la velocità delle comunicazioni, hanno certo rotto l’isolamento che prima penalizzava paesi e vallate collocate anche a brevi distanza dai fondovalle principali. Oggi i valori ambientali propri dei territori montani, quando vengono esplicitati, la tipologia delle abitazioni, la qualità della vita, le opportunità di svago, di praticare sport, di coltivare la lentezza, il pensiero, la riflessione, di godere del paesaggio, del mutare delle stagioni, di un tempo di vita umanamente più consono ai bisogni di bambini, ragazzi e adulti, costituiscono un valore aggiunto di cui forse non sempre chi ci vive è pienamente consapevole. Sono di per sé anche risorse economiche e diventano sempre più, se oculatamente gestite, opportunità di lavoro «buono», riconvertito se necessario. Ma i luoghi ci parlano. Bisogna leggerli e interpretarli. Storicamente abbiamo esempi di comportamenti virtuosi che, esercitati nel tempo, sono diventati radicati orientamenti culturali la cui inosservanza veniva vissuta come trasgressione socialmente condannabile. E per contro, in che modo una sregolata gestione, individuale o di gruppi di potere, delle risorse collettive, dei rapporti di produzione ma anche dei rapporti relazionali all’interno delle comunità, viene percepita dalle popolazioni come socialmente pericolosa? Si parla di abusi, danni ambientali, cattivo utilizzo del patrimonio e dei beni comuni, cattiva gestione, violazioni amministrative dei comuni. Oppure tutto ciò viene ormai considerata come normale, una causa persa? Ora la parola chiave per uno sviluppo armonico non può più essere solo la sostenibilità che concretamente ci dice quanto un territorio, una comunità, una montagna può sopportare. Quanto è profonda l’impronta che noi umani lasciamo dietro di noi compromettendo egoisticamente il futuro delle prossime generazioni, la logica del «qui, subito e per me». Serve ancora un approccio «compatibile» che tenga conto delle diversità: non si può parlare solo genericamente di montagne, si deve parlare il più possibile di «montagna», con la sua specificità, la sua identità, la sua storia, la sua conformazione, dunque le sue vocazioni. Non c’è una ricetta sola, buona per tutti e per tutte le stagioni. Bisogna trovare appunto quella o quelle più compatibili. Spetta alle comunità la regia e la responsabilità della conservazione non solo dell’ambiente ma anche della propria identità stanziale, della dignità di chi ci vive da generazioni, dell’individuazione di bisogni e necessità (presidi istituzionali, scolastici, sanitari, culturali, sociali) senza rinunciare ad attrarre visibilità sulle proprie bellezze, a condividerle, a farle conoscere e apprezzare, mostrando però la capacità di saperle gestire, difendere, tutelare. Lucia Coppola
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LUCIA COPPOLA |
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